Quando abbiamo “voglia di mangiare” non rispondiamo solo ad un bisogno fisiologico per placare lo stomaco, ma anche ad un bisogno psichico in cui il cibo aiuta a placare la mente. Il rapporto con il cibo è complesso, si mangia oltre che per fame, anche 
- per rabbia, quando divoriamo avidamente e proviamo soddisfazione nel mordere soprattutto parti dure
- per solitudine, per colmare un vuoto in questo caso ricerchiamo cibi dolci e morbidi
- per sentirci attivi, ingeriamo ogni cosa pur di “fare” qualcosa, caratteristico quando la persona vuole agire ma non sa come fare o non ci riesce, avrebbe voluto dire qualcosa ma ne è stata impedita
- per inerzia, per abitudine, come un gesto meccanico a cui non diamo significato apparente ma che sentiamo necessità di fareDa notare che questi stessi sentimenti in alcune persone inducono un atteggiamento opposto: “chiusura dello stomaco” con conseguente scarso appetito, quindi anche in questo caso si nota come una componente emotiva possa influenzare uno stato fisiologico. 
E’approvato non solo da indagini scientifiche, ma anche dalla stessa esperienza che esiste uno stretto rapporto tra stato emotivo (rabbia, rancore, delusione, frustrazione, stress, ansia…) e attaccamento o rifiuto per il cibo. 
La complessità aumenta dal punto di vista psicosomatico, quando si aggiunge una componente anche auto-punitiva legata ad un senso di colpa per aver ingurgitato troppo o per cause ancora più profonde. 
Il vomito diventa quindi liberazione, ma anche aggressione, rifiuto di un elemento (non solo fisico, ma il più delle volte psichico), eliminazione di ciò che non si riesce ad accettare. Se ci pensiamo il rapporto con il cibo viene influenzato fin dalla prima infanzia, quando i bambini vengono compensati con caramelle e/o dolci se fanno qualcosa di gradito. A tutti sarà capitato di vedere una scena in cui l’adulto dice “Bravo piccolo, ti sei proprio meritato questa caramella” oppure: “se fai questo ti darò un biscotto” o ancora “non piangere, mangia una caramella” o “ti sei comportato male e vai a letto senza cena”. Da queste semplici frasi apparentemente banali e a volte troppo meccaniche può nascere un condizionamento causa-effetto tra pensiero e cibo, il cibo diventa allora un appagamento emotivo, una gratificazione, un’arma di ricatto o di offesa. Quindi “apprendiamo” un rapporto distorto con il cibo, come se l’atto di mangiare sostituisse un bisogno più profondo.  L’approccio psicosomatico vuole quindi essere un metodo che affianca la persona nel suo processo di trasformazione favorendo la comprensione del rapporto con il cibo anche dal punto di vista psicologico. Ad esempio se voglio colmare il senso di vuoto devo capire prima cosa lo genera, prenderne coscienza e staccarmi dall’automatismo del mangiare, imparando a vivere e gestire al meglio il sentimento di solitudine.L’obiettivo è ritornare alla consapevolezza interna per raggiungere gli obiettivi autonomamente senza l’appoggio esterno del cibo, ed imparare a sentirsi a proprio agio con sé stessi, imparare a gestire e non nascondere le emozioni.